Diamo a Dahl quel che è di Dahl
di LUCIA LUSTIG
Il primo libro di Dahl che lessi da bambina fu Gli Sporcelli: ricordo ancora la sensazione di stupore, mescolato ad una sorta di euforia, provato nell’incontrare le bislacche e irriverenti descrizioni dei coniugi Sporcelli e delle loro terrificanti abitudini e dinamiche di coppia (illustrate in modo indimenticabile dalla matita più graffiante dell’epoca, Quentin Blake). Era divertente, dissacrante, pungente, senza filtri. Era Dahl.
Questo suo occhio spietato, la penna pungente (non a caso in Italia era pubblicato da Salani nella collana Gli istrici) che non risparmia nessuno (soprattutto gli adulti), la sua abilità nel rendere ogni difetto dei personaggi un’iperbole caricaturale, si avvicina alla spontaneità immaginativa e senza filtri dei bambini, e a questo probabilmente è dovuta gran parte del suo successo. Dahl ci parlava senza tanti fronzoli e non voleva insegnarci chissà che cosa, ma stupirci, capirci, farci divertire e darci un’occasione di rivincita nei confronti di un mondo adulto che talvolta guardava al nostro universo infantile con sufficienza. E così, alcune storie sembravano proprio vendicare le bambine e i bambini dall’ottusità adulta e dai rapporti impari e disfunzionali, come in Matilde.
Molti anni fa mi capitò di insegnare in una classe dove la mia collega era una persona molto autoritaria, incline ad un tipo di disciplina vecchio stampo che spaventava i bambini più sensibili. Ad una di loro, grande lettrice, misi in mano proprio Matilde; lei lo divorò, e un giorno all’uscita mi urlò: “Maestra, tu sei la signorina Dolcemiele!”
È ancora uno dei complimenti più graditi che mi abbiano mai fatto, ma so bene che non era quel lusinghiero paragone, in realtà, il fulcro dell’impatto del romanzo di Dahl sulla la mia alunna: era piuttosto l’atto liberatorio di identificare la mia collega con la direttrice Spezzindue che le aveva permesso di guardare alla sua vita scolastica da un nuovo punto di vista. Una silenziosa ma efficace vendetta letteraria.
Adesso, alla luce del tema della censura, di cui ormai tutto è stato detto e scritto, mi chiedo: i testi di Dahl manterrebbero la stessa efficacia se “ripuliti” da quelle parole “scorrette”, provocatorie? Il linguaggio conserverebbe la sua naturale irriverenza, riuscirebbe ugualmente a vendicare i piccoli protagonisti e i lettori dai soprusi di adulti gretti e biechi come le signore Sporcelli e Spezzindue? E, nel caso di risposta affermativa, è corretto mettere mano al testo di un autore non più vivente? Ammetto che, riprendendo in mano Le streghe in età adulta, io stessa ho provato una sensazione di fastidio nel leggere la reazione disgustata del piccolo protagonista quando scopre dell’esistenza di donne completamente calve; tuttavia mi chiedo se sia davvero efficace correggere il tiro, facendo assumere al personaggio della nonna (come previsto dalle nuove versioni rieditate) un ruolo di mediatore che risulta lontano dal profilo che le viene cucito addosso durante tutto il resto della narrazione.
Lascio aperti questi interrogativi, ma scavo un po’più a fondo nel terreno sul quale si poggia la questione. Il nostro compito di educatori è quello di portare la comunicazione ad un livello empatico e non violento (come insegna lo psicologo Marshall Rosenberg) che implichi la considerazione dell’impatto che le parole possono avere sul destinatario del nostro messaggio. Si auspica che la cultura contemporanea tenda sempre di più a prestare attenzione e rimanere in allerta riguardo a contenuti che possano contenere o veicolare un pensiero razzista, abilista, grassofobico e omofobico. Ma è davvero necessario affidare un compito educativo di questo tipo ad un romanziere dissacrante e ai suoi personaggi? Siamo così sicuri che i giovani lettori, se formati ed educati da adulti sensibili, empatici, in una società dove le molteplicità di differenze vengono accolte e normalizzate, non siano in grado di discernere tra la descrizione macchiettistica di un personaggio grottesco (dove lo stesso Dahl spiega che sono proprio i cattivi pensieri e intenti di quel soggetto a renderne sgradevole anche l’aspetto esteriore) e il reale utilizzo di un linguaggio non inclusivo o il vero e proprio bodyshaming?
Da lettrice di Dahl, da educatrice, ma soprattutto da ex bambina che amava le storie, mi sentirei di dare maggiore fiducia ai lettori. E chissà che, forse, non sia più utile continuare a cercare di migliorare la società, anziché cambiare soltanto le pagine di qualche libro.